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E tu, dai il buon esempio?

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A volte è necessario soltanto un buon esempio.

Guarda con attenzione questa fotografia.

Lo scatto immortala la pausa pranzo nella scuola media di Tallahasee, in Florida. I protagonisti sono, Travis Rudolph, campione di football, e Bo Paske, un bambino di prima media con autismo, mentre pranzano insieme.
E vediamo due tipi di “esempio”: da una parte, esempio di umanità, esempio del fatto che nessuno può e deve essere lasciato solo in un momento dedicato alla socializzazione; dall’altra, esempio di insensibilità, da parte dei compagni e degli insegnanti non curanti delle esigenze di chi è più fragile.
Per chi, come me, è un inguaribile ottimista, si augura che in realtà quel tavolo sia rimasto vuoto soltanto nel momento dello scatto per far risaltare quell’evento eccezionale, ma certo la dichiarazione della mamma del bambino, purtroppo, spezza la nostra positività. Lea scrive: “Ha un abbraccio per tutti, non capisco perché lo emarginino. Ma sono felice. Per un giorno non ho dovuto preoccuparmi della solitudine di mio figlio alla mensa”.

È innegabile e naturale che se da parte degli insegnanti non c’è adeguata attenzione, voglia e impegno di includere il bambino con disabilità all’interno del gruppo classe, i coetanei tendono poi ad escludere colui che percepiscono come diverso da loro.

Come si può evitare una situazione del genere?

Semplice, è necessario il buon esempio!

Alle scuole elementari ho avuto la grande fortuna di avere una bravissima maestra che è riuscita a far comprendere ai miei compagni di classe, che il mio parlare male, il fatto che non camminassi e avessi oggettivamente bisogno di aiuto concreto nelle piccole cose, non inficiava il rapporto che si poteva instaurare con me. Tanto che ricordo, divertito, che la maggior parte dei miei amichetti facevano quasi a gara nello spingermi fuori dalla classe e per stare con me durante la ricreazione, appena suonata la campanella, qualcuno correva subito a prendere la merendina dalla cartella per aprirmela.

Questo com’è stato possibile?

Ovviamente dovrei chiederlo alla mia maestra, ma riflettendoci, possiamo individuare tre comportamenti fondamentali dell’insegnante che hanno permesso di tenere aperto un canale di comunicazione tra me e gli altri.

  • Parlare in classe della malattia: Si sa, i bambini sono molto curiosi, innegabile segno di intelligenza. Non hanno paura della verità e soprattutto, non si creano inutili scrupoli nel chiedere informazioni su tutto ciò che a loro appare strano. Quanti genitori vedo imbarazzati quando i loro figli, indicandomi, chiedono con estrema naturalezza “Perché, parla così?”. Interrogativo assolutamente logico. Vedendo la difficoltà delle mamme e dei papà nel rispondere, spesso mi capita di spiegare personalmente i motivi del mio parlare diversamente dagli altri.
    Per questo, un insegnante dovrebbe parlare in classe della malattia o della problematica della persona con disabilità partendo da quei nomi complicati e lunghi (tipo “Disturbi generalizzati dello sviluppo” per coloro che soffrono di autismo, ad esempio), nomi che appaiono inizialmente difficili ma che una volta spiegati diventano più chiari. Così facendo, oltre ad aiutare i compagni a comprendere un significato in più, allo stesso tempo anche quel bambino o ragazzo con disabilità può prendere coscienza di chi sia: non il “poverino” della situazione, ma un alunno, come tutti gli altri, anche se con necessità diverse.
  • Dare il buon esempio, in modo naturale e spontaneo: la mia insegnante era la prima a rendermi partecipe nelle attività scolastiche, nel parlare con me, nell’aiutarmi in quello che poteva servirmi durante le ore di lezione, perciò, nasceva spontaneo anche per i compagni fare lo stesso. In questa maniera non diventava un dovere stare vicino, aiutare e parlare con l’amichetto con problemi, ma veniva del tutto naturale. Io ero semplicemente uno di loro con delle particolari originalità. Bastava solo avere delle piccole accortezze in più, come per esempio, prestare maggiore attenzione quando parlavo e anch’io, da parte mia, mi impegnavo a scandire bene le parole.
  • Essere consapevoli che “disabilità” non sia sinonimo di alibi e quindi comportarsi di conseguenza. I limiti non possono giustificare comportamenti sbagliati, anche se quella persona è fragile. Rimanendo in ambito scolastico: se quel bambino non si impegna, non studia o manca di rispetto, ovviamente secondo canoni che devono essere opportunamente riadattati a seconda delle sue difficoltà e modi di essere, deve essere invitato a fare del suo meglio, esattamente come tutti gli altri. In questo modo quella persona può rendersi conto dei suoi limiti e tutti possono prodigarsi per aiutarlo a superare le difficoltà oggettive, forti del fatto che, a suo modo, si impegni al massimo per superarle.

Dalla mia esperienza, i bambini, non emarginano nessuno se sono aiutati a interagire in modo naturale con la persona disabile, senza costrizione, nella maniera più trasparente possibile.

Perché questo avvenga, però, devono essere le persone adulte a dare il buon esempio per prime, accettando l’unicità di ogni persona, non come ostacolo che divide, ma come risorsa che unisce.

Luca Dalla Palma

Ah, dimenticavo. Ecco alcuni link per approfondire la vicenda di Travis Rudolph e Bo Paske:

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